Sculture al femminile l'altra metà dell'Africa
Ad Asti una mostra esplora le forme dell´arte del continente nero
di Olga Gambari
C´è un gruppo di donne che aspetta. Sono arrivate dall´Africa, hanno età diverse. Nigeria, Gabon, Costa d´Avorio, Ghana, Burkina Faso, Mali, Congo. Sono tutte scure, in legno, terracotta, pietra e cucinano, tengono oggetti, pregano, portano bambini. Si sono trasformate in statue, sgabelli, coppe, oggetti da divinazione, strumenti musicali, cucchiai, pettini, maschere. Sono le protagoniste della mostra «Africa in forme», allestita nel Battistero di Asti fino a settembre, dedicata alla scultura africana legata soprattutto alla figura femminile. I lineamenti sono marcati, evidenziati i seni, in genere scoperti come il resto del busto, con la pancia spesso colta nel momento della maternità. Sotto indossano gonnellini, anche in pelliccia applicata, e sono scalze, ornate da scarificazioni sulla pelle e strane acconciature come copricapi. Alcuni visi sono zoomorfi, comunque deformati in simbolizzazioni divine e animali, rese trascendenti da uno sguardo oltre il reale. Assomigliano a creature aliene, dai corpi slanciati, i colli estesi e le teste ellittiche, ma anche quadrate e rombizzate, con gli occhi allungati.Arriva l´eco di Picasso e di molti maestri del Novecento occidentale, influenzati dall´arte aborigena africana nel codificare gli stilemi dell´arte contemporanea. Ma c´è anche il ricordo delle tante visualizzazioni preistoriche dell´idea della fertilità, alle origini della raffigurazione umana. Sono tutte donne che animano un racconto al femminile, alcune ritratte singolarmente, altre in gruppo, e ancora in coppia, marito e moglie come gemelli. Ce ne sono alcune alte pochi centimetri, miniature in bronzo, avorio e legno, fino ad altre alte due metri e spesse un centimetro e mezzo, sottili come giunchi. La loro cultura di appartenenza spazia tra tutte le zone del continente africano. Ci sono volti ed effigi, corpi magnifici e che ti entrano dentro come un ricordo, altri meno, ma sono un popolazione indimenticabile, che accoglie e narra.
Alla fine ci si domanda però se davvero capiamo la loro lingua e le loro storie, al di là delle suggestioni, e poi anche altre notizie su di loro rimangono inevase, troppe. La mostra è allestita e sviluppata seguendo un concetto espositivo estetico, da wunderkammer un po´ affollata, con una classica visione museale sette-ottocentesca, senza date né alcun cenno scientifico. Magari si potevano esporre estratti parziali dagli interessantissimi testi raccolti in catalogo, firmati da Bruno Orlandoni, Gian Luigi Nicola e Alberto Salza. Si aprirebbe così un maggior dialogo con queste figure, scoprendo che è molto difficile la ricostruzione storica dei singoli pezzi, anche se, proprio di fronte alla mancanza di scrittura, l´arte africana è deputata a essere luogo di memoria. E poi che si chiama «maestro di Buli» il primo artista africano identificato, che spesso diademi, abiti e gioielli reali rivestivano le statue, generalmente realizzate in legno chiaro e poi scurite con olio di palma per essere più realiste.E ce ne saremmo magari andati con queste parole di Salza in tasca: «Gli africani dicono che l´occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce. Ecco perché ci perdiamo il linguaggio formale degli africani. Gli oggetti, attraverso un loro specifico linguaggio, esprimono concetti e parlano». Ma chi ascolta davvero gli africani?
(La Repubblica 17 giugno 2008)
Another deadly crush in Nigeria at event offering free food
17 minutes ago
1 comment:
Interessantissima!!!!!
Molte cose e attività che uno non ha conoscenza che stanno cosi vicino qui in Italia.
Charles
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